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Che aver subito un trauma influenzi inevitabilmente la nostra percezione della realtà è cosa nota. In che modo lo faccia, sul fronte delle successive esperienze emotive e di conseguenza su quello della percezione di sé e degli altri, molto meno. Ora a questi interrogativi prova a fornire risposta uno studio, Il modello gerarchico nidificato del sé e la sua manifestazione post-traumatica non relazionale vs relazionale: una meta-analisi fMRI sulla processazione delle emozioni, pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry del gruppo Nature e condotta da Andrea Scalabrini e Clara Mucci dell’Università degli Studi di Bergamo insieme a Marco Cavicchioli e Francesco Benedetti dell’Università Vita Salute San Raffaele, in collaborazione con il neuroscienziato di fama internazionale Georg Northoff. Lo studio distingue tra due tipologie di traumi, che parrebbero influire diversamente sulla psiche di chi li subisce: i traumi relazionali e i traumi non relazionali. 
Nei primi, l'esperienza traumatica è legata alle relazioni interpersonali: si tratta quindi di esperienze che vanno dagli abusi emotivi a quelli fisici o sessuali da parte di persone significative come genitori, partner o altre figure di fiducia. In questo contesto, il trauma può influenzare profondamente il modo in cui la persona percepisce se stessa e gli altri, causando disturbi dell'attaccamento e problemi nelle relazioni future.
Sull’altro versante, i traumi non relazionali possono prescindere dalle relazioni interpersonali, ma possono derivare da eventi come incidenti gravi, disastri naturali, violenza casuale o altre situazioni: in questo secondo caso il trauma impatta ancora sulla percezione di sé e sullo stato emotivo, ma l'aspetto relazionale sembra esserne meno coinvolto.
“Al centro di questa ricerca – spiega il Prof. Scalabrini – vi sono il nostro Sé e la complessa struttura della nostra identità, che può essere influenzata dalle esperienze traumatiche in modi unici. Entrando nello specifico, i risultati suggeriscono che i pazienti con disturbi post-traumatici da traumi relazionali mostrano un'attivazione maggiore delle regioni associate al ‘sé interocettivo ed esterocettivo’, ovvero il nostro sé corporeo, che - come direbbe Van Der Kolk - ‘tiene il colpo’ dell’esperienza traumatica senza la possibilità di elaborarla a un livello simbolico-mentale più alto, il quale viene invece mantenuto in chi subisce traumi non relazionali. Il trauma relazionale si annida più profondamente nell’individuo, andando a intaccare il senso profondo di relazione fra noi e il mondo, fra il nostro io e il tu, il noi.”
“La ricerca – aggiunge la Prof.ssa Mucci – evidenzia quindi il fatto che il cervello può rispondere in modo diverso a questi due tipi di traumi, con implicazioni significative per il trattamento e il supporto delle persone colpite. Comprendere queste differenze può aiutare gli operatori sanitari e i terapeuti a personalizzare gli interventi per affrontare in modo efficace gli effetti del trauma sulla percezione di sé e sulle relazioni personali. In generale questa ricerca si pone al centro di un discorso clinico, ma anche socioculturale di promozione di relazionalità e ‘connectedness’ come pilastri fondamentali della salute bio-psico-sociale dell’individuo.”

 

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