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Nei mesi scorsi sono state molto condivise le parole di Sundar Pichai, Ceo di Google, pronunciate in un intervento molto incisivo di soli sessanta secondi: “Immagina la tua vita come se fossero 5 palline da far girare in aria cercando di non farle cadere. Una di queste palline è di gomma, altre 4 sono di vetro: rappresentano il lavoro, la famiglia, la salute, gli amici, e l’anima. Il lavoro è la pallina di gomma. Ogni volta che cadrai sul lavoro potrai saltare di nuovo (e anche meglio di prima) in un altro lavoro. Se invece a cadere sarà una delle altre, non ritornerà alla sua forma di prima. Sarà rotta, danneggiata, crepata. È importante diventare consapevoli di questo il prima possibile ed adattare adeguatamente le nostre vite. Come? Gestisci con efficacia il tuo orario di lavoro, concediti del tempo per te, per la tua famiglia, per gli amici, per riposarti e per prenderti cura della tua salute. Ricorda, se una delle palline di vetro si romperà non sarà facile farla tornare come prima. Gestisci con saggezza il tempo».

In pratica, secondo Pichai, il lavoro, una volta perso, si può ritrovare. Non vale lo stesso per le altre quattro palline alle quali, pertanto, è necessario dare priorità. E’ interessante considerare queste parole alla luce di un fenomeno che sta travolgendo il mondo del lavoro, modificandone profondamente i contorni. Sto parlando della Great Resignation o anche denominato Big Quit? Di cosa si tratta? E’ la tendenza a rassegnare in maniera volontaria le dimissioni dal posto di lavoro. Fenomeno che è iniziato prima negli Stati Uniti ma che ora si sta diffondendo in maniera rilevante anche in Europa. I dati italiani sulle dimissioni volontarie parlano di 800mila abbandoni in più nel 2021 rispetto agli anni precedenti. Buona parte di questi abbandoni si convertirà in nuove assunzioni ma è comunque una tendenza che non deve lasciare indifferenti. Anzì, dovrebbe portarci a riflettere sulle ragioni di un fenomeno che, se da un lato può essere sintomo di una visione diversa del lavoro e, più in generale della vita, dall’altro si concretizza in un’oggettiva difficoltà da parte delle aziende a trovare personale qualificato e desideroso di intraprendere un preciso percorso professionale.

E’ interessante osservare come sia cambiato nel tempo il modo di concepire il lavoro dal dopoguerra a oggi.

Negli anni immediatamente successivi alla guerra il lavoro veniva visto come un mezzo per potersi riscattare da situazioni di povertà e miseria. Uno strumento attraverso il quale affermare la propria indipendenza economica nei confronti della famiglia d’origine. Nelle generazioni successive il lavoro ha assunto un ruolo diverso. Non solo una fonte di sostentamento economico ma anche uno strumento attraverso il quale poter esprimere le proprie potenzialità, la propria creatività, ciò che davvero rappresenta l’ideale della vita e, nel contempo, una reale affermazione e realizzazione di sé. Su questo fertile terreno la pandemia ha gettato numerosi semi e dato una spinta propulsiva a un fenomeno che, probabilmente era già in essere ma che non era ancora emerso completamente. Ci troviamo quindi nel 2022 di fronte a un’idea del lavoro come qualcosa di svincolato da limiti temporali o economici. Il lavoro non deve essere qualcosa alla quale siamo assoggettati perché costretti, ma qualcosa che abbiamo scelto. Non è più solo l’azienda che sceglie il dipendente ma anche quest’ultimo che sceglie il luogo di lavoro. Non a caso nell’ultimo anno abbiamo assistito al moltiplicarsi di corsi finalizzati a studiare e riscrivere concetti come quello di leadership e di welfare aziendale. Ora è l’azienda che deve attrarre a sé il lavoratore, cosa impensabile fino a 10 anni fa.  E’ come se l’avidità di denaro e il desiderio di possedere beni sempre più lussuosi non attirasse più così tanto, soprattutto fra i giovani. Erano proprio questi ultimi che, in tempi non così lontani, erano disposti a passare tutto il giorno in ufficio, a non prendere vacanze, rinunciando al tempo per sé, pur di potersi permettere una seconda casa al mare o in montagna o una costosa auto sportiva.

Da notare che il fenomeno della Great Resignation riguarda più che altro i giovani. La fascia di età maggiormente coinvolta è infatti quella dai 25 ai 35 anni. Ci troviamo ancora in una fase decisamente embrionale di osservazione del fenomeno ma le prime evidenze sembrano segnalare come le persone coinvolte non si sentano più definite solo ed esclusivamente dalla professione, come forse avveniva un tempo, ma trovino un’immagine di sé vincente in contesti decisamente diversi da quelli che ci sono stati proposti dalla società negli ultimi 50 anni. Siamo certi che il successo si identifichi con una vita di sacrifici e rinunce per soddisfare i bisogni di un’azienda e accumulare denaro e non sia invece perseguibile attraverso un’esistenza più orientata al contatto con la natura e con i propri reali ideali? Va da sé che queste riflessioni sono un privilegio che non tutti si possono permettere. Chi fatica ad arrivare alla fine del mese e ha un mutuo sulle spalle da pagare non può concedersi il lusso di scegliere ma, di fatto, quello che sta accadendo deve essere un invito a porsi delle domande. E’ stata proprio la pandemia a imporci uno stop forzato e a costringerci a guardare le nostre vite da una prospettiva diversa. Dapprima ci ha concesso più tempo da trascorrere in famiglia o, comunque, con noi stessi e poi ci ha portati all’essenziale dimostrando che tante cose possono essere realizzate anche stando nello studio della propria abitazione. Ma, soprattutto, ci ha messi di fronte a un quesito importante: sono felice della mia vita così com’è?

Chiara Finotti
Vicedirettore di Respiro

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